Recensione album – Blue Rumble (dei Blue Rumble)

Formazione: 

  • Andrea Gelardini – Chitarre
  • Ronaldo Rodrigues – Tastiere
  • Harry Silvers – Batteria, percussioni
  • Sébastien Métens – Basso

Flauto in “Linda” di Leandro Oliveira


Ami il rock e vuoi scoprire un nuovo artista, magari una band emergente, ma non sa da dove iniziare…
Ma soo qui per questo, ovviamente!

Oggi parliamo dei Blue Rumble e del loro omonimo album d’esordio, uscito nel 2022.
Il gruppo è interessantissimo, tra le altre cose, per la sua multinazionalità. Infatti, per registrare questo disco a distanza, i membri, che si sono conosciuti tre anni prima sui social, hanno sconfitto chilometri e chilometri, perché sono sparsi per quattro Paesi e tre continenti.
Blue Rumble mi è stato inviato dal chitarrista del gruppo, Andrea Gelardini. La copertina è davvero bella, con protagonista assoluta una gazza australiana su un ramo, circondata da foglie e fiori. Trasmette un senso di mistero e di malinconia e, al tempo stesso di sacralità; è affascinante come un sigillo norreno. Ovviamente il colore blu la fa da padrone. Già da questa immagine possiamo avere un’idea di cosa andremo ad ascoltare: un’interpretazione moderna dell’estetica hippie.

Mood Sixties/Seventies. Musicalmente parlando, l’album soddisfa tutte le aspettative.
La sua particolarità è che è interamente strumentale, ma non si avverte mai la mancanza di una voce. E’ un percorso attraverso nove tracce molto varie tra loro e all’ interno di ognuna, che però marcano un sound ben riconoscibile. Si passa da ballad più sofferte come Occhio E Croce a pezzi che ti attraversano come una scarica elettrica: vedi The Snake.
Ma che genere è? E’ un rock elegante che tocca sonorità blues, hard, psichedeliche e progressive. Ascoltando l’album si ha l’impressione che il gruppo non abbia paura di mostrare le proprie influenze, che spaziano dai Led Zeppelin, ai Pink Floyd, passando per molti altri ancora. Ad esempio, Cosmopolitan Landscape è un blues malinconico e riflessivo, che a tratti ricorda le sonorità liquide dei Doors.
Sembra di vedere il profilo di una città di notte, con tutti i suoi grattacieli, taxi, persone e luci, riflesso in una pozzanghera dopo un giorno di pioggia.

Già dalle prime note di God Knows I Shoulda Been Gone si riconosce la qualità di questi musicisti. Perfettamente affiatati, si percepisce, nell’ascolto, quanto si siano divertiti e quanta passione abbiano impiegato nella realizzazione di questo prodotto. Si rimane colpiti da ognuno di loro per motivi diversi. La chitarra è molto molto bella, con il suo suono limpido, sognante e sferzante. In certi momenti si sente forte e chiara l’influenza del mio amato Jimmy Page.

In generale, il basso colpisce in modo particolare. Fondamentale per il sound della band e sempre ben distinguibile per tutta la durata dell’album, ha dei momenti in cui è protagonista. Think for Yourself è una canzone che scuote e, ad esempio, ci sorprende con un assolo di basso davvero forte, che cattura l’orecchio e dura abbastanza a lungo da riscattare tutti i bassisti della Storia che sono rimasti nell’ombra.
Per quanto riguarda l’organo, mi ha conquistata con il suo sound energico e tipicamente sixties; impossibile da ignorare, incendia i brani uno dopo l’altro, non poteva essere più indovinato di così. Oscilla tra la psichedelia più totale e il progressive più puro.
Cup O’ Rosie inizia con un groove alla batteria di palese stampo zeppeliniano, caratteristica che ritroviamo anche in altri pezzi: è un meraviglioso omaggio a John Bonham e a The Ocean. La chicca è che entrambi i brani presentano, oltre al groove, un’intro in cui sentiamo la voce del batterista. La canzone dei Blue Rumble è così travolgente che è impossibile non seguirne il ritmo con il piede, la mano o muovendo la testa. Harry Silvers è un tuono, ed anche vedendolo all’opera, è impossibile non pensare a Bonzo, sia per fisicità che per stile e potenza di suono.

Le idee non mancano di certo a questo gruppo, l’album è veramente ben scritto. Blue Rumble non ha un sound particolarmente “sporco” ed è aggressivo il giusto. Mai volgare, mai eccessivo e a tratti molto melodico. Promosso? Sì! Quindi consigliatissimo.

E tu già li conoscevi? Già li hai ascoltati? Fammelo sapere con un commento qui sotto!

Claudia Paesano

Diodato – Se mi vuoi

TESTO:

Guardami
come soltanto tu
Tu che sai brillare nel buio
continua a chiamarmi dal buio

Sarai questo bruciare per sempre
questo crimine della mia mente
Più sei vicino e più capisco
che tutto è tutto ciò che rischio

Ma se mi vuoi
io stanotte vengo a prenderti
vengo a prenderti

Tutto brucia, tutto passa,
tutto cambia faccia
Se non sei pronto a morire
sei destinato a sparire

Se questo fuoco chiuso dentro
stende un’ombra su di te
e so già che farà male
e anche se so che farà male

Se mi vuoi
io stanotte vengo a prenderti
vengo a prenderti

Se mi vuoi
Se mi vuoi
Se mi vuoi

Sai già che non so rinunciare
se mi, se mi
anche se so che farai male
se mi, se mi
Questa mia anima non sa
se mi, se mi
che cosa farsene della dignità
se mi vuoi

Se mi vuoi
Se mi vuoi
Se mi vuoi


 

Scritta da: 

Diodato

 

“Se mi vuoi” è la nuova canzone di Diodato.
È stata composta appositamente per il film “Diabolik – Ginko all’attacco!” che, nonostante abbia ricevuto numerose critiche, a me è piaciuto: l’ho trovato molto carino!
Il cantante compare anche in una scena del film, nella quale si sente “Se mi vuoi”.

Il primo minuto del brano non mi ha fatto impazzire, poiché l’ho trovato abbastanza banale. È la classica canzone italiana leggera e triste, suona come qualcosa di già sentito.
Ma dopo la bellissima apertura, che avviene circa al minuto 1.18, il pezzo cambia.
Infatti, abbiamo l’entrata trionfale del tema portante di tutta la canzone. È un sound patinato ed elegante che fa molto “Spy Movie”, fa molto “007”. A me ha ricordato i Muse di “Feeling Good”!

Secondo me, questo è, a mani basse, il miglior lavoro del cantautore fin ora. Trovo che in questa canzone la voce di Diodato sia stata valorizzata al massimo: è davvero splendente. È una voce che viene lanciata lontano, che vola in alto, che trasmette una passione signorile, ed anche una certa dose di perdono. Ho adorato l’utilizzo (piuttosto leggero) di un filtro vocale “effetto megafono” nei versi finali, quando la canzone si fa più struggente. Quest’ultimo dona alla voce molto carattere ed un tocco un po’ vintage, completando alla perfezione il mood del brano ed enfatizzandone il pathos.

E tu cosa ne pensi? Hai già ascoltato “Se mi vuoi”? Hai già visto Diabolik al cinema?
Fammelo sapere con un commento qui sotto!

Claudia Paesano

Demetrio Stratos – La voce a briglia sciolta


Si può suonare la voce?
Secondo Demetrio Stratos sì!

Stiamo parlando del cantante e frontman degli Area, una delle più grandi band di progressive rock italiano.
Demetrio apparteneva a un filone molto in voga negli anni settanta: quello delle sperimentazioni vocali.
Dalla fine degli anni ’60, infatti, si era diffusa la pratica della vocal performance art: numerosi cantanti compivano dei veri e propri esperimenti volti alla de-soggettivazione della voce e al superamento dei limiti del corpo.

Per approfondire questo argomento, consiglio il manuale “The 21st-Century Voice”, di Michael Edgerton: contiene numerosi esercizi, tecniche di respirazione yoga e molto altro per spingersi nei territori estremi della “voce estesa”, detta anche “extra-normal voice“.
Come dice Michela Garda nel suo saggio Arcipelago Voce, “Tutte le arti, comprese quelle della voce, costeggiano sempre più da vicino i territori del disturbante, del disgustoso, dell’estremo, del compulsivo. Ciò non significa che ne siano l’espressione immediata. La voce è anche un medium, che al contempo incorpora e media significati simbolici ed espressivi.”

La tendenza alla depersonalizzazione (fenomeno manifestato anche nell’ambito rituale di numerose religioni del mondo) amplia gli orizzonti della dimensione vocale contemporanea, e mette in discussione gli ordini e le gerarchie su cui si sono costruite e basate per secoli le società, mirando a destabilizzarle: parliamo soprattutto di dicotomie come quella tra animale/uomo, natura/cultura, uomo/donna, ecc.

Tra i maggiori esponenti di questa corrente di sperimentazioni troviamo, ad esempio, Joan La Barbara, David Moss, Meredith Monk e il nostro Stratos.
Dal pop/rock dei “Ribelli”, di cui era frontman, passa al rock progressivo più innovativo e sperimentale con i già citati Area.
Vocalist eccezionale, il suo stile di canto era selvaggio e libero, vertiginoso come una montagna russa. Non si faceva problemi a giocare con la voce come non faceva nessun altro.
La voce a briglia sciolta, agile, senza alcun freno.

Studioso di etnomusicologia, Demetrio è stato un pioniere della ricerca sulle tecniche di vocalizzazione di altre culture e tradizioni, ambito molto esplorato dalla vocal performance art. Praticava ad esempio, la manipolazione della voce con le mani, tecnica utilizzata da donne sciamane in Africa. Oppure, era tipica di Stratos la realizzazione di vocalizzi multifonici, diplofonie. Recuperando una tecnica vocale dei monaci tibetani, realizzava l’impensabile: cantava più suoni CONTEMPORANEAMENTE, spesso la voce vettoriale più due armonici, formando, così, un accordo (come lui stesso spiega).

Il suo obiettivo era portare la voce all’estremo, spingerla oltre i limiti dell’umano.

Se ascoltiamo, ad esempio, “Flautofonie“, notiamo come riuscisse a riprodurre perfettamente con la voce il suono di un flauto, riprendendo una tecnica molto diffusa in Mongolia.

Un altro obiettivo di Demetrio Stratos era quello di desoggettivizzare la voce, renderla irriconoscibile, slegarla, liberarla dalla dimensione irripetibile della persona. E per farlo utilizzava uno stratagemma molto interessante: abbandonare la parola, superare la parola. Come lui stesso affermò in un’intervista con Massimo Villa:

“Il problema è abolire la parola. Noi, quando si canta in questa direzione qui non crediamo tanto alla parola. Vogliamo abolirla, perché la parola ci incastra, ci schiavizza all’interno di un discorso stilistico. Noi non crediamo nello stile. Quindi si cerca di abolire la parola che è un secondo segnale della realtà. Non è la realtà, l’unica realtà, la parola. […] Qui si fanno esperimenti sul limite del linguaggio. […] Siamo in cinque miliardi che utilizziamo la voce, non la utilizziamo molto bene. Siccome non la conosciamo, si può scoprire; qui il tipo di sperimentazione che noi proponiamo è scoprire che non è tornare indietro, né cercare di riagganciarsi a una situazione di civiltà bianca o negativa, ma di scoprire quali sono i limiti del linguaggio oggi, nella nostra società.”

Per “Le Sirene” Stratos prese ispirazione dai vocalizzi della figlia piccola, che stava appena iniziando a parlare. L’effetto è straniante. Il suono è molto enigmatico ed inquietante, e colpisce diritto allo stomaco. Questo effetto è dovuto non soltanto ai suoni sconcertanti e impossibili da ricondurre a qualcosa di conosciuto, ma anche alla sovrapposizione di più linee vocali che seguono ritmi diversi. Trovo geniale questa traccia: una reinterpretazione originale e sorprendente del canto delle sirene, di un linguaggio indecifrabile che sembra provenire da un altro mondo.

Appare, quindi, evidente, come la sua ricerca sia volta alla riscoperta delle possibilità fonatorie trascurate durante il processo di apprendimento delle lingue naturali e dei diversi stili di canto.

Per chi fosse interessato ad ascoltare Stratos spiegare le proprie ricerche e la visione che aveva della voce, consiglio un bellissimo video/documentario che si può trovare su YouTube: “Suonare la voce”.


E tu conoscevi le sperimentazioni vocali degli anni Settanta?

Conoscevi Demetrio Stratos?
Parliamone insieme!

Claudia Paesano




Riferimenti: Arcipelago voce, Michela Garda

Jefferson Airplane – White Rabbit

TESTO:

One pill makes you larger
And one pill makes you small
And the ones that mother gives you
Don’t do anything at all
Go ask Alice,
When she was just small

And if you go
Chasin’ rabbits
And you know you’re
Going to fall
Tell’em a hooka
Smokin’ caterpiller
Has given you
The call
Go ask Alice
When she’s ten feet tall

When the men on the chessboard
get up and tell you where to go
And you just had some kind of mushroom
and your mind is moving low
Go ask Alice
I think she’ll know

When logic
And proportion
Have fallen
Sloppy dead
And the White Knight is talking backwards
And the Red Queen’s off with her head
Remember
What the dourmouse said:
“Feed your head,
  Feed your head”


TRADUZIONE:

Una pillola ti fa diventare più grande
Una pillola ti fa diventare piccolo
E quelle che ti dà tua madre
Non fanno più nessun effetto
Vai a chiedere ad Alice
Quando era semplicemente piccola

E se vai a inseguire conigli
E lo sai che cadrai
Di’ loro che un bruco che fuma il narghilè
Ti ha chiamato
Vai a chiedere ad Alice
Quando è alta tre metri

Quando gli uomini sulla scacchiera
Si alzano in piedi e ti dicono dove andare
E hai appena preso qualche tipo di fungo
E la tua mente si sta muovendo lentamente
Vai a chiedere ad Alice
Penso che lei lo saprà

Quando la logica
E la proporzione
Sono cadute morte
E il cavaliere bianco
Sta parlando al contrario
E la Regina Rossa ha perso la testa
Ricorda cosa disse il Ghiro:
“Nutri la tua testa,
  Nutri la tua testa”


Scritta da:

Grace Slick

Eseguita da:

  • Grace Slick – Voce
  • Jorma Kaukonen – Chitarra solista 
  • Paul Kantner – Chitarra ritmica
  • Spencer Dryden – Batteria
  • Jack Casady – Basso

California, dicembre 1965 o gennaio 1966.

La cantante Grace Slick, in seguito ad un trip di LSD, scrive il testo e compone al piano la musica di White Rabbit per la propria band, i Great Society. Circa un anno dopo, entrerà a far parte dei Jefferson Airplane, sostituendo la loro precedente cantante Signe Toly Anderson e portando con sé, nella nuova band, alcuni pezzi, tra cui White Rabbit e Somebody To Love.

Ebbene sì, oggi ci troviamo davanti al manifesto del rock psichedelico.

Il titolo è geniale: è poetico e suggestivo, il coniglio bianco in questione non ricade nel solito e abusato simbolismo legato alla purezza e all’innocenza, ma diventa una figura misteriosa e sfuggente, circondata da un alone di poesia, imponente come un totem.

White Rabbit inizia con un riff di basso indimenticabile, seguito da una marcia alla batteria e un arpeggio di chitarra dal sapore tipicamente spagnolo. Il suono, così contestualizzato, è insolito e sorprendente.
La meravigliosa e per nulla scontata voce di Grace Slick si fa attendere, entrando in scena dopo un po’, strisciando come un serpente verde smeraldo: è fumosa e ammaliante. Risuona come un’eco a cui è impossibile resistere. È protagonista assoluta dell’intero brano.

Ecco una piccola chicca: negli Stati Uniti, Grace Slick viene spesso soprannominata “Ribbon Candy”, facendo riferimento a quelle caramelle zuccherate e colorate a forma di nastro, talvolta parecchio lunghe, proprio per la sua voce dolce e inconfondibile, caratterizzata da continue vibrazioni che le conferiscono l’andatura ondulata che l’ha resa speciale.
Concedetemi un’opinione personale: trovo molto più interessante una voce imperfetta ma bellissima, colma di personalità e di carica interpretativa che la maggior parte delle voci di oggi, perfette e corrette in fase di editing ma vuote, noiose, prive di fascino e di emotività.

Estremamente evocativo, il pezzo ci catapulta nel mondo magico e ambiguo di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Specchio, creato dal controverso autore e matematico inglese Lewis Carroll nel 1865. Grace ha infatti raccontato, in diverse interviste, che la canzone è ispirata proprio a questo grande romanzo diviso in due parti a cui lei è molto legata, anche perché, da bambina, i genitori le leggevano spesso le avventure di Alice.
La storia è un capolavoro assoluto senza tempo. Consiglio vivamente questi libri a chi non li avesse letti, ma sono sicura che chi l’ha già fatto lo sa: sono spesso definiti libri “per bambini” ma, a mio avviso, non lo sono per niente. Più volte, infatti, le avventure di Alice prendono una piega sinistra e inquietante e, inoltre, trattano di temi piuttosto impegnativi come la follia, la morte, e altre cose poco simpatiche. Il tutto visto dagli occhi di una bambina di sette anni.
Resta comunque uno dei miei romanzi preferiti in assoluto, un paradiso per chiunque sia interessato alla linguistica. Celebri sono, ad esempio, la bellissima poesia nonsense “Jabberwocky”, o ancor di più, l’episodio di Humpty Dumpty: vi assicuro che rimane impresso.

Bene, già dalle prime note della canzone, grazie alla sinergia tra voce e strumenti, ci troviamo a camminare in un luogo onirico da cui siamo attratti e incuriositi, che appare, però, avvolto nella nebbia, dove nulla è chiaro e tutto sembra sfuggire alle regole del mondo terrestre che conosciamo.
E se vai ad inseguire conigli, e lo sai che cadrai…

Veniamo sballottati da una parte all’altra, in mezzo ad un caleidoscopio di strani personaggi che appaiono dal nulla, uno dietro l’altro, che ci dicono continuamente cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo andare, come gli uomini della scacchiera che si animano, o che cercano di circuirci e attirarci a sé, come il bruco che fuma il narghilè.

Il brano è un continuo crescendo, ed è diviso in due parti: dopo la seconda strofa, la canzone diventa sempre più intensa, a tratti minacciosa. Non possiamo più fidarci nemmeno delle nostre percezioni, proprio come in un trip.
When logic and proportion have fallen sloppy dead

Si avvicinano a noi figure sinistre di cui non conosciamo le intenzioni, come il Cavaliere Bianco che parla al contrario o la Regina Rossa che ha perso la testa (letteralmente), fino a culminare con quello più insinuante di tutti, il ghiro che ci invita in modo allusivo a “nutrire la nostra mente”.

Remember what the dormous said, feed your head.
è la frase che ha reso cult questa canzone. Suona come un monito, la voce di Slick pare quasi ipnotizzarci, sembra quella di una sacerdotessa di un culto segreto.

Fin dalla prima frase della canzone, è evidente il riferimento esplicito all’uso di sostanze stupefacenti, che culmina, per l’appunto, con l’imperativo “feed your head”, ripetuto per ben due volte. La frontwoman, pur ammettendo con molta tranquillità i chiari riferimenti alla droga (che valsero per la prima volta ad una canzone di essere passata in radio senza censure), ha riportato, in un’intervista della BBC, che la frase si riferiva in realtà all’importanza della lettura ed era un invito a leggere.

Probabilmente non sapremo mai quale delle due interpretazioni è giusta. Forse lo sono entrambe, ma, in ogni caso, si tratta di un alone di mistero in più che si aggiunge a questo pezzo intramontabile.

E voi conoscevate White Rabbit? Cosa ne pensate?
Fatemelo sapere con un commento qui sotto!

Claudia Paesano

The Beatles – I Want You (She’So Heavy)


TESTO:

I want you
I want you so bad
I want you
I want you so bad
It’s driving me mad, it’s driving me mad

I want you
I want you so bad, babe
I want you
I want you so bad
It’s driving me mad, it’s driving me

I want you
I want you so bad, babe
I want you
I want you so bad
It’s driving me mad, it’s driving me mad

I want you
I want you so bad
I want you
I want you so bad
It’s driving me mad, it’s driving me

She’s so

Heavy
Heavy, heavy, heavy

She’s so

Heavy
She’s so heavy (heavy, heavy, heavy)

I want you
I want you so bad
I want you
I want you so bad
It’s driving me mad, it’s driving me mad

I want you
You know I want you so bad, babe
I want you
You know I want you so bad
It’s driving me mad, it’s driving me mad
Yeah!

She’s so-



TRADUZIONE:

Ti voglio
Ti voglio così tanto
Ti voglio
Ti voglio così tanto
Mi sta facendo impazzire, mi sta facendo impazzire

Ti voglio
Ti voglio così tanto, piccola
Ti voglio
Ti voglio così tanto
Mi sta facendo impazzire, mi sta facendo impazzire

Ti voglio
Ti voglio così tanto, tesoro
Ti voglio
Ti voglio così tanto
Mi sta facendo impazzire, mi sta facendo impazzire

Ti voglio
Ti voglio così tanto
Ti voglio
Ti voglio così tanto
Mi sta facendo impazzire, mi sta facendo impazzire

Lei è così
pesante
Pesante, pesante, pesante

Lei è così

Pesante
È così pesante (pesante, pesante, pesante)

Ti voglio
Ti voglio così tanto
Ti voglio
Ti voglio così tanto
Mi sta facendo impazzire, mi sta facendo impazzire

Ti voglio
Lo sai che ti voglio così tanto, piccola
Ti voglio
Lo sai che ti voglio così tanto
Mi sta facendo impazzire, mi sta facendo impazzire

Sì, sì, sì!

Lei è così…



Scritta da:

John Lennon

Eseguita da:

  • John Lennon – Voce e chitarra solista, sintetizzatore, cori
  • George Harrison – Seconda chitarra, cori
  • Paul McCartney – Basso, cori
  • Ringo Starr – Batteria, conga
  • Billy Preston – Organo elettrico

 


La canzone più erotica dei Beatles?

Secondo me è I Want You (She’s So Heavy), scritta nel 1969 da John Lennon e dedicata alla moglie Yoko Ono.
Inserita nell’album Abbey Road, è stata una delle ultime canzoni degli Scarafaggi ad essere registrata in gruppo.

Si tratta di un blues rock dalle fortissime venature hard rock. Per questo motivo, è annoverato tra i capostipiti del genere hard rock (e quindi anche proto-metal) insieme ad altri pezzi come Revolution e Helter Skelter, solo per rimanere in tema Beatles.

La canzone comincia con un arpeggio di chitarra ipnotico e sempre uguale a se stesso, reso oscuro e profondo dal riverbero, al quale si sovrappone un languido fraseggio dai toni acuti.

La ripetitività del testo, estremamente scarno e praticamente ridotto all’osso, ci trasmette un senso di desiderio e ossessione, un desiderio così forte da portare alla follia. Voce e chitarra sono sempre all’unisono. Persino il breve assolo riproduce la melodia vocale.

Il basso di Paul è duro. Pur restando in sottofondo, è ben distinguibile per tutta la durata della canzone, spiccando in alcuni intermezzi di silenzio, potente ed elegante al tempo stesso. Contribuisce in modo essenziale alla pesantezza del sound.

Al minuto 1.56 la canzone cambia: le sonorità dark e la lentezza del ritmo conferiscono una sensualità torbida al brano. Il meraviglioso organo stride e canta, intenso e sexy. Scivola giù come una cascata. È blues puro.

Per concludere, c’è una cosa che rende particolare questa canzone: il finale!
Infatti, negli ultimi minuti del brano, al ripetitivo riff lento e cadenzato, che caratterizza tutta la canzone, viene sovrapposto un rumore bianco realizzato con il sintetizzatore. Il volume di quest’ultimo aumenta sempre di più, arrivando quasi a sovrastare la melodia e, proprio quando sembra diventare assordante, il brano si interrompe di colpo, lasciando l’ascoltatore spiazzato e confuso.
Esiste anche una versione del brano con il finale in fading, ovvero che sfuma a poco a poco nel silenzio. È possibile ascoltarla, ad esempio, nella prima stampa italiana di Abbey Road.

E tu conoscevi questa canzone? Cosa ne pensi?

Fammelo sapere con un commento qui sotto!

Claudia Paesano

Van Der Graaf Generator – Lemmings (Including Cog)

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TESTO:

I stood alone upon the highest cliff-top,
looked down, around, and all that I could see
were those that I would dearly love to share with
crashing on quite blindly to the sea.
I tried to ask what game this was,
but knew I would not play it:
the voice, as one, as no-one, came to me: 

“We have looked up on the heroes
and they are found wanting;
we have looked hard across the land,
but we can see no dawn;
we have now dared to sear the sky,
but we are still bleeding;
we are drawing near to the cliffs,
now we can hear the call.
The clouds are piled in mountain-shapes,
there is no escape except to go forward.
Don’t ask us for an answer now,
it’s far too late to bow to that convention.
What course is there left but to die?

We have looked up on the High Kings,
found them less than mortals:
their names are dust before the just
march of our young, new law.
Minds stumbling strong, we hurtle on
into the dark portal;
No-one can halt our final vault
into the unknown maw.
And as the Elders beat their brows
they know that it’s really far too late now to stop us.
For if the sky is seeded death
what is the point in catching breath? – Expel it.
What cause is there left but to die
in search of something we’re not quite sure of?”

What cause is there left but to die?
What cause is there left but to die?
What cause is there left but to die?
I really don’t know why… 

I know our ends may be soon
but why do you make them sooner?
Time may finally prove
only the living move her and
no life lies in the quicksand.

Yes, I know it’s
Out of control, out of control:
Greasy machinery slides on the rails,
Young minds and bodies on steel pikes impaled…
Cogs tearing bones, cogs tearing bones;
Iron-throated monsters are forcing the screams,
Mind and machinery box-press the dreams.

But there still is time…

Cowards are they who run today,
the fight is beginning…
no war with knives, fight with our lives,
lemmings can teach nothing;
death offers no hope, we must grope
for the unknown answer:
unite our blood, abate the flood,
avert the disaster…
There’s other ways than screaming in the mob:
that makes us merely cogs of hatred.
Look to the why and where we are,
look to yourselves and the stars and in the end
What chance is there left but to live
in the hope of saving
our children’s children’s little ones?

What choice is there left but to live?
What choice is there left but to live?
What choice is there left but to live?
To save the little ones?

What choice is there left but to try?
What choice is there left but to try?
What choice is there left but to try?


TRADUZIONE:

Stavo in piedi da solo sulla cima della scogliera più alta…
Guardai giù, intorno, e tutto ciò che riuscivo a vedere
erano quelli con cui avrei tanto voluto condividere
continuare a schiantarsi ciecamente nel mare.
Ho provato a chiedere che gioco fosse,
ma sapevo che non ci avrei giocato:
la voce, come una, come nessuna, mi arrivò.

“Abbiamo cercato gli eroi,
ma abbiamo scoperto che sono scomparsi.
Abbiamo cercato con impegno per tutta la terra,
ma non vediamo l’alba (una via d’uscita).
Ora abbiamo osato bruciare il cielo,
ma stiamo ancora sanguinando:
ci stiamo avvicinando alle scogliere,
ora sentiamo il richiamo.
Le nuvole sono impilate a forma di montagne.
Non c’è scampo se non andare avanti.
Ora non chiederci una risposta.
È davvero troppo tardi per inchinarsi a quella consuetudine.
Quale strada è rimasta, a parte morire?

Abbiamo cercato i Grandi Re,
e li abbiamo trovati meno che mortali.
I loro nomi sono polvere
innanzi alla marcia della nostra giovane, nuova legge.
Le menti inciampano rovinosamente,
continuiamo a precipitare nell’oscuro portale.
Nessuno può fermare il nostro volteggio finale verso le fauci sconosciute.
E mentre gli anziani si battono la fronte,
sanno che è davvero troppo tardi per fermarci adesso.
Poiché, se il cielo è seminato di morte,
che senso ha prendere fiato?
Buttalo fuori.
Quale ragione è rimasta, eccetto morire, in cerca di qualcosa di cui non siamo affatto sicuri?”

Quale ragione è rimasta, a parte morire?
Quale ragione è rimasta, a parte morire?
Quale ragione è rimasta, a parte morire?
Davvero, non so perché…

Lo so che la nostra fine potrebbe arrivare presto,
ma perché la fate arrivare prima?
Il tempo potrebbe infine rivelare
che solo la vita la muove/commuove
e che non c’è vita nelle sabbie mobili.

Si, lo so, è fuori controllo,
fuori controllo:
macchinari unti scivolano sulle rotaie.
Giovani menti e corpi impalati su picche d’acciaio.
Ingranaggi che spezzano le ossa,
ingranaggi che spezzano le ossa.
Mostri dalla gola di ferro stanno forzando le grida.
La mente e i macchinari comprimono i sogni in scatole.

Ma c’è ancora tempo…

Codardi sono coloro che oggi scappano,
la battaglia sta cominciando.
Niente guerra con i coltelli,
combattiamo con le nostre vite.
La morte non offre speranza,
dobbiamo cercare a tentoni la risposta sconosciuta,
unire il nostro sangue, fermare l’alluvione, evitare il disastro.
Ci sono mezzi diversi dal gridare nella folla;
questo ci rende soltanto ingranaggi di odio.
Guardate al perché e al dove siamo,
guardate voi stessi e le stelle,
e alla fine
quale possibilità è rimasta se non vivere?
Nella speranza di salvare i figli dei figli dei nostri figli?

Quale scelta è rimasta, a parte vivere?
Quale scelta è rimasta, a parte vivere?
Quale scelta è rimasta, a parte vivere?
Per salvare i piccoli?

Quale scelta è rimasta, a parte provare?
Quale scelta è rimasta, a parte provare?
Quale scelta è rimasta, a parte provare?


Scritta da:

Peter Hammill

Eseguita da:

  • Peter Hammill – Voce, chitarra, piano
  • David Jackson – Sassofoni tenore, contralto e soprano, flauto traverso
  • Guy Evans – Batteria
  • Hugh Banton – organo elettrico, mellotron, sintetizzatore

Un piccolo appunto: per tutta l’analisi parlerò di sax al singolare, sebbene per la stragrande maggioranza del tempo, il mostruoso David Jackson ne suoni due contemporaneamente, cosa che rese il sound del gruppo unico e particolarissimo. Purtroppo non so distinguere tra un sassofono tenore, contralto o soprano.


Ciao a tutti, rockers e non!

La canzone di oggi mi era stata richiesta anni fa da una persona molto speciale per me.

Vi presento l’ennesimo capolavoro che il prog-rock ci regala: Lemmings (Including Cog), dei Van Der Graaf Generator.
Prima traccia del quarto album della band, Pawn Hearts, è stata pubblicata nell’ottobre del 1971.

Prendiamoci un attimo per analizzare il titolo del brano: Lemmings (Including Cog).
I lemmings sono dei piccoli roditori che abitano nella tundra artica, e sono noti per una triste pratica: quando la popolazione raggiunge numeri eccessivamente alti, i lemmings si suicidano in massa gettandosi in mare da altissimi promontori.
Al giorno d’oggi sappiamo che questa altro non è che una leggenda metropolitana, probabilmente fomentata e diffusa non solo dalla storia a fumetti di Carl Barks (inventore di Zio Paperone) “Zio Paperone e il ratto del ratto” (1955), ma anche dal documentario della Disney “Artico Selvaggio” (1958), che gli valse un oscar e nel quale furono costretti al suicidio decine di lemmings.
L’egoismo umano non smette mai di sorprendermi.

E “Including Cog”?
Lo vedremo presto.

Ma allora, come mai questo titolo?
Scopriamolo insieme.
Il brano comincia con un caldo arpeggio di chitarra acustica, seguito da un leggiadro flauto traverso e da una batteria in punta di piedi. La soffusa sinfonia dal sapore medievale acquista sempre più carica con l’entrata in scena dell’organo, che farà da collante per tutta la durata del pezzo.
Sembra quasi che stia per cominciare una favola da un momento all’altro, ma cosa narra la voce da menestrello del nostro Peter?
Il tema è in crescendo.
Immedesimato in un ignoto protagonista di cui l’unica caratteristica conosciuta è l’essere da solo, osserva i suoi cari lanciarsi in mare da una rupe, in massa, alla cieca.
Perché i lemmings, con la loro leggenda, sono l’emblema della moltitudine ottusa votata all’autodistruzione.
E questo concetto è applicabile al branco o all’intera società.
L’unico antidoto per evitare il disastro è affermare la propria individualità, con tutti i pregi e i difetti, le idee e le mancanze. Osservare il mondo senza mai farsi condizionare, ma sviluppare la propria personalità, anche a costo di confrontarsi con il senso di inadeguatezza, con l’impressione di avere la scritta “errore di fabbricazione” stampata in fronte, con la paura della solitudine.
Anche a costo di impazzire di dolore per le troppe storture, violenze psicologiche e non, insensatezze e altre orribili cose e situazioni che si osserveranno, come con una lente d’ingrandimento, dall’esterno. Perché non ne vorrai far parte.
Anche a costo di vedere le persone che ami autodistruggersi, come i lemmings.
E vorresti essere come tutti gli altri o farla finita per sempre prima di loro, per sottrarti all’orrore.

E ovviamente, il dubbio.
I know our ends may be soon, but why do you make them sooner?
Perché il suicidio di massa?

Mentre sotto imperversa un riff bizzarro e spigoloso, la voce si fa aspra.
La risposta arriva, pronunciata da una voce all’unisono (as one), ma che preannuncia già l’amara scomparsa (as no-one); sembra quasi sia un fantasma a parlare.

Di fronte alla caduta di rassicuranti idoli, modelli, precetti, di figure mitizzate di uomini o dèi, che ragione di vita è rimasta?
Che senso ha vivere?
Perché affannarsi a cercare, brancolando nel buio, una ragione di vita che probabilmente non troveremo mai?
È un incubo senza via d’uscita.
L’unica soluzione sembra essere, per il singolo, il suicidio. Per la massa, l’incontrollata, lenta ma inserorabile, autodistruzione.

I fraseggi di sax e una sostenuta batteria accompagnano la risoluta e incontestabile voce di Hammill, che diventa, alla fine, disperata.
What cause is there left but to die?

Arrivati quindi al minuto 3.37, se si presta attenzione, magari con le cuffie, è possibile ascoltare dei suoni realizzati con un mellotron o un sintetizzatore (credo) che, almeno secondo me, imitano dei singhiozzi.

Nella strofa successiva, la traccia vocale è composta da sovraincisioni dissonanti che, come spesso accade nel progressive, creano un senso di alienazione nell’ascoltatore.
Molto interessante è l’attribuzione dell’aggettivo possessivo femminile her all’entità asessuata time, che dà origine ad una prosopopea, cioè ad una personificazione.
Secondo voi perché proprio femminile?

La riflessione contiene in sé uno spiraglio di speranza.
Il tempo potrebbe rivelare che solo la vita lo muove/commuove*.
Ma contemporaneamente, si può dire che il tempo come entità esiste perché noi umani l’abbiamo inventato e suddiviso.
E per questo, esiste solo se esistiamo anche noi.
Agli altri animali, e ancor meno al mondo vegetale, lo scorrere del tempo non interessa.

Ad un tratto, un momento di calma, in cui flauto e chitarra acustica sono protagonisti.
E poi un motore carica, carica, carica ed esplode: assistiamo ad un cambio di tema sia a livello musicale che poetico.
Sembra di stare su un’altalena, tra scoppi di aggressività fatti di suoni ora confusi e dissonanti, e momenti pacati. È spiazzante.

Ricordate il titolo?
Bene, perché siamo arrivati a “Cog“.
Peter riprende il concetto di annullamento della personalità, ma sotto una diversa luce.

Young minds and bodies on steel pikes impaled.
Prima, la denuncia contro la guerra, frutto delle azioni e non-reazioni, dell’appiattimento del pensiero e delle non-decisioni della massa pigra, facilmente manipolabile da chi ne sfrutta l’ignoranza, dirottandone le paure e l’odio verso bersagli innocui.
Mi viene in mente la situazione politica in cui versiamo oggi.

Poi cogs tearing bones.
L’individuo, con tutti i suoi limiti, si annulla di fronte alla potenza e alla perfezione della macchina.

Infine, mind and machinery box-press the dreams.
La fredda razionalità, che gli umani rivendicano con molto orgoglio come una caratteristica esclusiva, così come fa una qualsiasi altra macchina, schiaccia, comprime i sogni in scatole.
Mi chiedo, è giusto chiudere in scatole i propri sogni, per poi buttarli via e dimenticarli?
È giusto confinarli in favore di ciò che è utile o più conveniente, ma che non ci rende felici?
In poche parole, è sano sacrificare ciò che ci rende felici a vantaggio di ciò che è utile o più conveniente?
È sana una società come la nostra, in cui contano solo il freddo calcolo, il profitto, l’omologazione, l’avanzamento tecnologico, in cui non c’è spazio per l’emotività, la filosofia, l’arte, la natura (di cui siamo parte integrante, nonostante non perdiamo mai l’occasione di alzare una barriera tra il “mondo degli umani” e il “mondo naturale”, rivendicando una presunta e ridicola superiorità.
Forse sarebbe meglio abbandonare questa limitante prospettiva antropocentrica).

But there still is time
Ma c’è ancora tempo. Possiamo fermare tutto questo.
Si conclude così Cog, un brano nel brano.

Ma andiamo avanti.
Nella nube di suoni disarmonici, tra cui il suono di un pianoforte, si fa largo, imperante, il riff originario.
Adesso la musica ribolle.
Siamo tornati in Lemmings, e la prospettiva è tutta nuova.
È incantevole l’idea della vita come arma.
Infatti, di fronte allo sfacelo della società, a tutti gli orrori e le devianze, di fronte a quella che sembra una battaglia impari la nostra arma è rimanere in vita.
No war with knives, fight with our lives.
Di fronte al crollo di tutte le certezze, dobbiamo continuare a cercare la nostra ragione di vita, anche se si nasconde da noi.
Dobbiamo combattere con le nostre stesse vite e dobbiamo combatterla insieme questa battaglia, unite our blood.

E poi, due versi che, nuovamente, ci dovrebbero far riflettere sulla situazione politica attuale.
Ci sono mezzi diversi dal gridare nella la folla: questo ci rende solo ingranaggi di odio. E non a caso, l’enfasi cade sulla parola cogs, ingranaggi, come a voler sottolineare la spersonalizzazione dei tanti individui che compongono la moltitudine di cui alcune figure si servono per orientarne l’odio cieco, che porta allo scontro e infine alla distruzione.

In un ultimo duetto tra sax e organo, i versi finali. La musica si addolcisce.
Dopo aver finalmente riflettuto, osservato e scoperto le cose bellissime che ci circondano, come le stelle o anche noi stessi, quale altra scelta abbiamo se non vivere?
Vivere per agire e reagire. Per cambiare le cose.
Quale altra scelta se non far sopravvivere la nostra specie nella speranza di un futuro migliore?
Tutto sembra acquietarsi e l’ultima domanda risuona limpida:
quale altra possibilità, se non provarci?

Che dire ragazzi, è commovente.
Meraviglioso il messaggio finale, meravigliosa la batteria che riproduce il battito di un cuore.
È la vita che trionfa.

Ma di nuovo note oscure suonano come un avvertimento: sulla sinistra base di organo si immette una cantilena di sax quasi da horror, mentre i piatti incorniciano la cupa atmosfera.
E sulle note acute e fatate di flauto e organo, un piccolo stacco di batteria chiude il brano.

E voi cosa ne pensate?
Spero abbiate trovato la canzone e l’articolo interessanti!
Personalmente, io ho amato questo capolavoro. Lo trovo meraviglioso.
Pensate che, se ho capito bene, non sono presenti né un basso né una chitarra elettrica. Però, che rock!

Detto questo, ci vediamo alla prossima canzone.
A presto!

Claudia Paesano

*Nella traduzione ho voluto rispettare l’ambiguità del verbo to move, che in inglese vuol dire sia muovere che commuovere, proprio per conservare anche l’immagine del tempo come essere superiore che si emoziona nell’osservare i viventi.

The Doors – Spanish Caravan

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TESTO:

Carry me, caravan
Take me away
Take me to Portugal
Take me to Spain
Andalusia with fields
full of grain
I have to see you
Again and again

Take me,
Spanish caravan
Yes, I know you can…

Trade winds find galleons
Lost in the sea
I know a treasure
Is waiting for me
Silver and golden

The mountains of Spain
I have to see you
Again and again

Take me,
Spanish caravan
Yes I know you can…


TRADUZIONE:

Portami, carovana
Portami via
Portami in Portogallo
Portami in Spagna
Andalusia con campi
Pieni di grano
Ho bisogno di vederti
Ancora e ancora

Portami,
Carovana spagnola
Si, lo so che puoi…

I venti Alisei trovano galeoni
Perduti nel mare
So che un tesoro
Mi sta aspettando
D’argento e d’oro
Le montagne di Spagna
Ho bisogno di vederti
Ancora e ancora

Portami,
Carovana spagnola
Si, lo so che puoi…


Scritta da:

Robby Krieger

Eseguita da: 

  • Jim Morrison – Voce
  • Ray Manzarek – Organo
  • Robby Krieger – Chitarre
  • John Densmore – Batteria

Ciao a tutti!

Perdonate la lunghissima assenza, ma questo sarà un ritorno in grande stile con Spanish Caravan, un piccolo capolavoro dei Doors contenuto nel loro terzo album: Waiting for the Sun (1968).  🌅

Sulle note di un arpeggio dalle sonorità tipicamente spagnole (quelle del flamenco), Jim ci porta nella penisola iberica. Più precisamente, tra le montagne fiabesche dell’Andalusia, che esercitano una forza magnetica irresistibile.
Tutto il brano, infatti, esprime un grande amore per quella terra: I have to see you again and again.

Ma perché “carovana spagnola”?
La carovana era una modalità adoperata dagli invasori europei nell’esplorazione dei territori americani.
In questo caso, al contrario, una carovana parte alla ricerca di un “Eldorado” europeo, fatto di montagne dorate e campi di grano.
Numerosi sono, appunto, i richiami cromatici al colore dell’oro.
E il viaggio è spinto da un desiderio non tanto di evasione, quanto di avventura e di ricerca della felicità.

Ma veniamo alla parte più emozionante, almeno per me.
Il tema acustico si interrompe per poi riprendere pochi secondi dopo:
le due chitarre iniziali sono sostituite da una geniale e sorprendente combinazione di organo e chitarra distorta che ricorda i suoni di un temporale.
Io vedo davanti agli occhi una cascata o, ancora meglio, un acquazzone, e folate di vento impetuoso (a partire dal minuto 1.58 e in particolare al minuto 2.16 poco prima della parola “winds”)…
Voi cosa vedete?

Le frasi: “Trade winds find galleons lost in the sea, I know a treasure is waiting for me” sono estremamente suggestive.
La musica incalza, con il suo ritmo sempre più insistente e circolare, come altissime onde di un mare in tempesta, misterioso e oscuro.
Ho notato che la maggior parte delle interpretazioni di questo verso descrivono antichi galeoni che giacciono, sommersi, sul fondo del mare, carichi d’oro.
Personalmente, ogni volta che ascolto questa canzone, complice anche l’impostazione della musica a livello strumentale, vedo un mare in tempesta, un cielo grigio o notturno squarciato di fulmini ed enormi navi in balia del vento e di immense onde, contro cui combattono con tutte le proprie forze per non affondare.
Anche i galeoni fanno parte dell’iconografia spagnola, essendo il mezzo con il quale i conquistatori si spostavano tra il “nuovo” e il “vecchio” continente.
Ma non sappiamo niente sulle anacronistiche navi della canzone, non sappiamo qual è la loro destinazione e neppure se ci arriveranno mai. Sappiamo solo che sono disperse in mare.
Si salverà l’equipaggio?

Antitetico rispetto al verso precedente, I know a treasure is waiting for me ne condivide il trepidante senso di mistero, ma in chiave ottimista. Ricco di speranza, racchiude il significato dell’intero brano: una metafora per la ricerca della felicità. Ma potrebbe anche riferirsi, più in generale, al futuro del protagonista.
Mi fa venire la pelle d’oca ogni volta.
La vita non è solo (o comunque non sempre) un mare in tempesta in cui ci si può perdere. Nasconde un tesoro (o più tesori); sta a te scoprire quale e spetta a te il compito di affrontare mille avversità per raggiungerlo.
Ricorda: non “I hope“, ma “I know a treasure is waiting for me“.
Quel tesoro esiste ed è lì per te.
Ti sta solo aspettando.

Claudia Paesano

Queen – See What a Fool I’ve Been

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TESTO:

Well, she’s gone, dear,
Gone this morning…
Ow, see what a fool I’ve been.
Oh Lord, coochie cool
What a fool I’ve been…
Yes, I did it, too much

Didn’t leave me, me no letter
Didn’t leave no warning,
You, naughty thing, you.
Well, I guess I am to blame,
Oh Lord
I guess I’m all to blame.
See you later, sailor boy…

Child, right now you take it
Hope my little dog ain’t too hungry.
No, no, he just kept on barking.
The vicious thing
Just don’t seem the same, oh no no
It just, oh tantrums,
It don’t feel the same.
Ooh, see you later…

Now hit it like that
Coming on strong
Oh

Oh, well I got so lonely…
Went and told my neighbour,
She said “Ah mm mm mm”
Oh Lord, what a fool I’ve been…
And then she told me what to do,
She said “Go home”

Well she’s gone,
Gone this morning
See what a fool I’ve been,
Oh, Lord
What a fool I’ve been…
Thank you


TRADUZIONE:

Be’, se n’è andata, caro,
Se n’è andata stamattina…
Guarda che stupido che sono stato,
Oh Signore, ossessionato dalle donne
Che stupido che sono stato.
Si, lo sono stato, troppo

Non mi ha lasciato neanche una lettera
Non ha lasciato nessun avvertimento
Tu, cosa cattiva, tu
Be’, immagino sia colpa mia,
Oh Signore
Credo sia tutta colpa mia.
Ci vediamo dopo, marinaio…

Piccola, adesso prendi questo
Spero che il mio cagnolino non sia troppo affamato,
No, no, ha solo continuato ad abbaiare.
La cosa crudele non sembra la stessa,
Semplicemente, oh capricci,
non sembra la stessa.
A dopo…

Be’, mi sentivo così solo…
Sono andato a dirlo alla mia vicina,
Lei ha detto “Ah, mm mm mm”
Oh Signore, che stupido che sono stato…
Poi lei mi ha detto cosa fare
Mi ha detto “Vai a casa”

Be’, se n’è andata,
Se n’è andata stamattina.
Guarda che stupido che sono stato,
Oh Signore,
Che stupido che sono stato…
Grazie


Scritta da:

Brian May

Eseguita da:

  • Freddie Mercury – Voce
  • Brian May – Chitarra
  • John Deacon – Basso
  • Roger Taylor – Batteria

Buonasera a tutti!


Oggi vorrei presentarvi non un grande classico o un brano impegnato, ma l’ennesima di quelle che io chiamo “le perle sconosciute dei Queen”.
Si, sconosciute.
Perché, purtroppo, di questo straordinario e innovativo gruppo si conoscono quasi esclusivamente le mastodontiche, bellissime, ma super commerciali hit.
Questa canzone non è epica come “The Prophet’s Song”, né elettrizzante come “Death on Two Legs”, ma vi assicuro che, spiritosa com’è, resta comunque un gioiellino.
L’ho scoperta ieri mattina, dopo aver sfogliato un vecchio libro sui Queen di mio padre, e me ne sono innamorata subito.
C’è una cosa che la rende speciale… Se non l’avete mai ascoltata, vi consiglio di farlo, soprattutto se siete amanti del blues rock, e in particolare di una certa band di capelloni inglesi perennemente incazzati.
Ma perché?

Perché, rilasciata nel ’74 come lato B del singolo “Seven Seas of Rhye”, «questa canzone di May, musicalmente, sembra fare il verso ai Led Zeppelin» [Da “QUEEN – tutti i testi” di Alessandro Massara].
In effetti è proprio così: sembra di trovarsi di fronte ad una perfetta fusione tra Queen e Led Zeppelin.
Ve lo ripeto, non tratteremo di parole indimenticabili o riff che hanno fatto la storia.
Questo pezzo è così: sicuramente non il massimo dell’originalità, ma comunque squisito.

Ascoltiamo il brano in maniera globale.
Dietro alla palese influenza zeppeliniana, possiamo trovarne altre mille, di cui la prima che mi viene in mente è quella dei Cream, con la loro “Sitting on top of the World” (a sua volta ripresa da Howlin’ Wolf).
Fateci caso: quest’ultima, sicuramente meno leggiadra di See What a Fool I’ve Been, ne condivide tuttavia il groove lento e trascinato, oltre che parte delle parole.
La realtà è che Brian May compose la canzone dopo aver ascoltato “The Way I Feel”, dei bluesmen Sonny Terry e Brownie McGhee, ricordandone stralci di riff e, ancora una volta, alcune parole.

In effetti, quello del brano di oggi è un classico testo blues.
Scendiamo un po’ di più nel dettaglio.

Mi piace pensare al blues come al genere elegiaco dei giorni nostri. 

Nel contesto dell’antichità classica (Grecia e Roma), l’elegia era una poesia principalmente d’amore (sofferto o impossibile), dal carattere autobiografico, in cui l’autore, tormentato dal suo sentimento, si lamentava dei problemi che lo affliggevano.
Il blues, come dice la parola stessa, è nato per esprimere principalmente sentimenti di tristezza, ma non solo: anche rabbia, dolore, gelosia.
Alcuni temi e i motivi del blues mi ricordano molto quelli della poesia elegiaca (anche se il blues non disdegna temi come disoccupazione, dipendenze, povertà, violenza) ma, naturalmente, interpretati in chiave contemporanea.
Come l’elegia, il blues si basa, quindi, sulla forza dell’immedesimazione che esercita sull’ascoltatore/lettore.

Chiusa parentesi, torniamo alla nostra canzone!
Innanzitutto, non possiamo non parlare della maestosa voce di Freddie, qui assottigliata in una giocosa imitazione di quella di Robert Plant.
E forse “giocoso” è l’aggettivo che più si addice all’intero pezzo.

Well, she’s gone, dear,
Gone this morning…
Ow, see what a fool I’ve been.
Oh Lord, coochie cool
What a fool I’ve been…

Sulle tranquille e limpide note iniziali, il tono di Mercury non riflette nemmeno un po’ la tristezza delle parole da lui pronunciate, anzi, sembra volerle prendere in giro, cogliendo anche l’occasione per parodiare totalmente lo stile del frontman dei Led Zeppelin, a cominciare dal lessico e dall’accento con cui pronuncia le frasi Didn’t leave me me no letter – Didn’t leave no warning (Notare il riferimento a D’yer Mak’er e la ripetizione di me). Oppure ancora Child, right now you take it, passando poi per la varietà di urletti e sospiri tipici del biondo.
Il non ancora baffuto cantante riproduce volutamente il timbro sottile, ambrato ma al tempo stesso aspro, come un liquore, del Plant di Houses of the Holy (uscito nel ’73). Con un’ironia che non mi aspettavo, ne mette in ridicolo la caratteristica ed ostentata sensualità (non priva di ambiguità), così come, di tanto in tanto, l’aggressività stridente (un esempio è il modo in cui dice Oh Lord all’inizio oppure quell’Oh durante il primo assolo).
Non c’è niente da fare, ragazzi. Freddie che fa il seducente, imitando Riccioli d’Oro, fa troppo ridere.
Il culmine della parodia si ha, per me, con la frase: “See you later, sailor boy”. Stavo letteralmente morendo dalle risate.

E le similitudini con la band che ha dominato gli anni ’70 non finiscono qui; al minuto 0.23 la sezione ritmica fa il suo ingresso e scandisce un groove intenso e costante di stampo zeppeliniano, mentre la chitarra elettrica sostituisce quella acustica in un ardente riff alla Page, con tutti i suoi caratteristici fraseggi blues sparsi qua e là.
Insomma i Queen, pur non prendendosi sul serio, danno prova del loro smisurato talento, e risultano, così, irresistibili.
E divertentissimi.
Amanti del rock, prestate attenzione al minuto 1.12: voce e chitarra all’unisono riproducono le sonorità dei celebri duetti made by Robert Plant and Jimmy Page.

L’assolo che segue è appassionato ed energico, supportato da un’altrettanto energica evoluzione della batteria. E’ un fiume in piena di note che, nonostante emulino lo stile pentatonico di Jimmy, mantengono il sound classicheggiante di Brian.

Oh, well I got so lonely…
Went and told my neighbour,
She said “Ah mm mm mm”
Oh Lord, what a fool I’ve been…
And then she told me what to do,
She said “Go home”

Dopo l’assolo, Mercury prorompe in un vertiginoso grido: l’ultima imitazione della voce di Robert.
L’ultima perchè, da questo punto in poi, la canzone prende una piega diversa.
La voce, riacquistata la propria agile individualità, si tinge degli inconfondibili toni caldi e setosi di Freddie: ora è limpida, flessuosa, nobile, libera.

Un secondo assolo sembra voler riaffermare la vera identità del gruppo con esplosioni di batteria e intricate quanto aggressive evoluzioni di chitarra.
Quest’ultima, dopo un riff, segue di pari passo la voce, in un terzo duetto, per poi chiudere il pezzo con uno scanzonato fraseggio.

Bene, ragazzi miei… Se da un lato il brano mi ha fatto ridere, dall’altro mi ha fatto semplicemente innamorare.
Il mio obiettivo di oggi era quello di farvi conoscere (o, se già la conoscevate, di farvi analizzare) una delle tante, interessantissime, canzoni dei Queen che, purtroppo, sono finite nel dimenticatoio.
Che ne pensate voi? Fatemelo sapere, e se vi è piaciuta l’articolo, condividetelo dove volete e fatelo leggere ai vostri amici!

A presto!

Claudia Paesano

The Rolling Stones – Under My Thumb

aftermath

TESTO:

Under my thumb
The girl who once had me down
Under my thumb
The girl who once pushed me around
It’s down to me
The difference in the clothes she wears
Down to me, the change has come,
She’s under my thumb
Ain’t it the truth babe?

Under my thumb
The squirmin’ dog who’s just had her day
Under my thumb
A girl who has just changed her ways
It’s down to me, yes it is
The way she does just what she’s told
Down to me, the change has come
She’s under my thumb
Say it’s alright

Under my thumb
A siamese cat of a girl
Under my thumb
She’s the sweetest, hmmm, pet in the world
It’s down to me
The way she talks when she’s spoken to
Down to me, the change has come,
She’s under my thumb
Take it easy babe

It’s down to me, oh yeah
The way she talks when she’s spoken to
Down to me, the change has come,
She’s under my thumb
Yeah, it feels alright

Under my thumb
Her eyes are just kept to herself
Under my thumb, well I
I can still look at someone else
It’s down to me, oh that’s what I said
The way she talks when she’s spoken to
Down to me, the change has come,
She’s under my thumb
Say, it’s alright.
Say it’s all…
Say it’s all…
Take it easy, babe
Take it easy, babe
Feels alright
Take it, take it easy, babe.


TRADUZIONE:

La tengo in pugno
La ragazza che una volta mi dominava
La tengo in pugno
La ragazza che una volta era prepotente con me
Dipende da me
Quello che indossa
Dipende da me, il cambiamento è avvenuto
La tengo in pugno
Non è forse la verità, bimba?

Lo tengo in pugno
Il cane indisciplinato che ha avuto il suo momento
La tengo in pugno
Una ragazza che ha appena cambiato i suoi modi di fare
Dipende da me, si, è così,
Il modo in cui fa ciò che le si dice di fare
Dipende da me, il cambiamento è avvenuto
La tengo in pugno
Si, dì che va tutto bene

La tengo in pugno
Più un gatto siamese che una ragazza
La tengo in pugno
Lei è il più dolce animaletto domestico del mondo
Dipende da me
Il modo in cui parla quando le si rivolge la parola
Dipende da me, il cambiamento è avvenuto
La tengo in pugno
Rilassati, bimba

Dipende da me, si
Il modo in cui parla quando le si rivolge la parola
Dipende da me, il cambiamento è avvenuto
La tengo in pugno
Mi sento bene

La tengo in pugno
I suoi occhi sono fissi solo su se stessa
La tengo in pugno
Beh, io invece posso ancora guardare qualcun altro
Dipende da me, l’ho detto,
Il modo in cui parla quando le si rivolge la parola
Dipende da me, il cambiamento è avvenuto
La tengo in pugno


Scritta da:

Mick Jagger e Keith Richards

Eseguita da:

  •  Mick Jagger – Voce
  • Keith Richards – Chitarra elettrica
  • Brian Jones – Chitarra acustica,
    marimba (una specie di xilofono)
  • Bill Wyman – Basso
  • Charlie Watts – Batteria

Bentrovati, amanti del rock!

La canzone di cui voglio parlarvi oggi è “Under My Thumb”, contenuta nel settimo album, “Aftermath”, che le Pietre, ormai più miliari che Rotolanti, pubblicarono nel luglio 1966, esattamente cinquant’ anni fa. Molto probabilmente, fu ispirata dalla modella Chrissie Shrimpton dopo una frequentazione con il cantante della band.

Prima di cominciare vorrei fare una premessa: questa è una recensione un po’ diversa dalle altre.
Il motivo?
Per quanto ami con tutto il cuore i Rolling Stones, che rientrano a pieno titolo tra i miei gruppi preferiti, devo ammettere che non riesco ad ascoltare Under My Thumb, senza che quest’ultima mi trasmetta un certo senso di rabbia.
Inoltre, nonostante io sia a conoscenza del palese intento provocatorio del brano, non voglio rimanere indifferente.
Non è assolutamente mia intenzione sminuire la strameritata fama degli Stones con questo articolo, vorrei semplicemente condividere con voi le mie idee riguardo al pezzo in questione.

La canzone è passata alla storia non solo per il suo tanto elementare quanto intramontabile riff, ma anche per essere stata la colonna sonora dell’omicidio di Altamont, che contribuì a creare, nell’immaginario collettivo, l’associazione musica rock – violenza.
Gli ingenui Stones si stavano esibendo all’Altamont Free Concert nel 1969, come tante altre volte, ignari di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
Forse il termine più adatto a definirli sarebbe “incoscienti”, piuttosto che “ingenui”.
Vi starete chiedendo il perché.
Ebbene, Mick e compagni avevano ingaggiato come servizio “sicurezza” gli Hells Angels*.
Risultato?
Proprio durante il finale di Under My Thumb, scoppiò una feroce rissa tra il pubblico e i raccomandabilissimi riders, conclusasi con l’accoltellamento mortale del giovane Meredith Hunter (a seguito dell’estrazione di un’arma da fuoco da parte di quest’ultimo) ad opera dell’ Hells Angel Alan Passaro.

Ma, curiosità a parte, andiamo ad analizzare il brano.
L’essenziale e pacata melodia di marimba ne scandisce non solo l’inzio, ma l’intera durata, fino alla sua conclusione, risultando, così, leggermente monotona. Fa da sfondo alla decisa voce di Jagger:

[…] La tengo in pugno
La ragazza che una volta mi dominava
La tengo in pugno
La ragazza che una volta era prepotente con me […]

La chitarra si limita a tenere un ritmo rilassato, al quale corrisponde un altrettanto rilassato Jagger che, con tutta la nonchalance del mondo, pronuncia parole davvero discutibili, le quali, come si può facilmente immaginare, scatenarono lo sdegno e le proteste delle femministe degli anni ’60, e che, inoltre, contrastano aspramente con la spensierata morbidezza delle note.
Il cantante paragona più volte la ragazza ad un animale domestico,

[…] Lo tengo in pugno
Il cane indisciplinato che ha avuto il suo momento […]
Più un gatto siamese che una ragazza
La tengo in pugno
Lei è il più dolce animaletto domestico del mondo […]

e insiste nell’affermare che è lui a decidere come la giovane si debba vestire o addirittura come debba parlare. Personalmente, trovo queste ultime cose piuttosto inquietanti. Ricordano i tanti casi di violenza che vedono la donna completamente sottomessa e manipolata psicologicamente dall’uomo. Oggi (2022) sono persino diventati un trend di cui ragazzine sempre più in tenera età si vantano su Tik Tok.

[…] Dipende da me quello che indossa […]
[…] Dipende da me il modo in cui fa ciò che le si dice di fare […]

[…] Dipende da me il modo in cui parla quando le si rivolge la parola […]

La quasi ossessiva ripetizione di under my thumb sta a sottolineare il controllo totale che il frontman esercita sulla ragazza.

Si tratta davvero di misoginia?
Mick si difese dalle accuse di maschilismo in un’intervista del 1984, dicendo (cito testualmente): “The whole idea was that I was under HER, SHE was kicking ME around. So the whole idea is absurd, all I did was turn the tables around. So women took that to be against femininity where in reality it was trying to ‘get back’ against being a repressed male.”

Non so come la pensate voi, ma per me questa non è una giustificazione.
Non stiamo parlando del classico brano che ha per protagonisti un cuore spezzato e la rabbia, il disprezzo e la delusione vomitati addosso a chi l’ha spezzato. Qui si va oltre.
Pensate agli scritti dei primissimi Led Zeppelin, come Your Time Is Gonna Come, Dazed And Confused, How Many More Times, Since I’ve Been Loving You, Black Dog, ecc (la lista è lunga)…
Attinti a piene mani da vecchi brani blues, e pur essendo estremamente semplici, questi testi raccontano di sentimenti genuini;
inveiscono, anche aspramente, contro la donna senz’anima di turno, dicendone di tutti i colori, ma sempre mantenendo la parità tra i ruoli, restando nei limiti. Qui i limiti vengono scavalcati.
Sappiamo che Under My Thumb non è né la prima né l’ultima canzone misogina scritta nella storia.

A questo proposito, concedetemi una piccola digressione.
Vorrei soffermarmi un po’ sulla figura che la donna ha assunto nel rock, con il tempo.
Sicuramente starete pensando alla donna intesa come “musa ispiratrice” (per usare un eufemismo), e magari non alla donna come protagonista attiva del panorama musicale.
Vi sarà venuta in mente una Pamela Des Barres, piuttosto che una Grace Slick.
Per intenderci, una groupie, piuttosto che una musicista.
Questo perché, per motivi storici che hanno visto le donne controllate e represse, chiuse in casa, al massimo impegnate nelle faccende domestiche e non nelle proprie passioni, il sesso femminile ancora non incarna la figura del musicista nell’immaginario collettivo, bensì viene percepito come una sorta di “accompagnamento” del musicista uomo.

E’ questo il punto, lasciate che vi faccia un esempio. E magari anche un paragone con la canzone di oggi.
Rag Doll” degli Aerosmith fa al caso nostro.
La band, infatti, ci propone un abbagliate e patinato rock anni ’80 dalle sonorità irresistibili, che ci proietta direttamente tra le luci di Hollywood.
Ma prestiamo attenzione all’ammiccante e graffiata voce di Steven Tyler:

[…] I’m feelin’ like a bad boy, just like a bad boy
I’m rippin’ up a Rag Doll, like throwin’ away an old toy […]

Sono queste le frasi più rilevanti dell’intero brano che, purtroppo, ci offre la solita minestra trita e ritrita: la donna ridotta ad un mero oggetto sessuale.
Una bambola di pezza da stracciare e poi gettare via come un giocattolo vecchio che ormai non serve più.
Come se non bastasse, il testo presenta un crollo verticale nel cattivo gusto più totale con queste parole:

[…] Old tin lizzy, do it till you’re dizzy
Give it all ya got until you’re put out of your misery
Rag Doll livin’ in a movie
Hot tramp, Daddy’s little cutie
You’re so fine, they’ll never see ya leavin’ by the back door, ma’m
Hot time get it while it’s easy
Don’t mind, come on up and see me
Rag Doll, baby, won’t ya do me like you done before?
Yes I’m movin’
Get ready for the big time […]

Lui vuole approfittarsi di Lei mentre è ubriaca, o sotto effetto di sostanze, o comunque, non in sé (to be dizzy = avere le vertigini).
Oltre che sugli squallidi nomignoli sessisti (hot tramp = puttanella), soffermiamoci sul fatto che la violenza descritta in questa canzone viene totalmente normalizzata.

Sia nel testo grossolano di Rag Doll, che in quello, ammettiamolo, esagerato di Under My Thumb, il rispetto verso la donna viene calpestato senza esitazione, insieme alla stessa concezione della sua figura, seppur in modi diversi; differenza espressa già solo dagli epiteti attribuiti alla giovane.
Se nel primo pezzo, Steven definisce Lei una “bambola di pezza”, un oggetto inanimato con cui giocare quando è annoiato, Mick la vede invece come un animale da addomesticare.

Secondo voi cos’è peggio?

Come leggiamo in Under My Thumb, infatti, la ragazza viene completamente sottomessa e posta, rispetto all’uomo, su un piano di inferiorità che tocca il fondo, per l’appunto, con il paragone con un animale da compagnia di proprietà del padrone: she’s the sweetest pet in the world.
Lui arriva ad annientarla psicologicamente, sopprimendo la sua personalità, rimanendo poi soddisfatto di aver messo in riga il “cane indisciplinato” e di averlo trasformato in un inoffensivo e grazioso Siamese.

Salvo qualche timido fraseggio e un modesto accenno di assolo, la chitarra rimane per lo più lineare, e il nostro cavaliere, non contento, ribadisce la disparità del rapporto fra i due: her eyes are just kept to herself, well, I can still look at someone else.
Afferma che, mentre lei è obbligata ad essergli fedele, lui invece è libero di “guardare” anche altre persone.

Beh, che dire… Non possiamo sapere se gli autori della canzone abbiano tenuto effettivamente un comportamento del genere nella realtà. Di certo si tratta di una pesante provocazione, di una ricerca di rottura con un mondo troppo ipocrita e “buonista”. Sicuramente l’intento degli autori era proprio quello di scandalizzare, com’è tipico del rock. Ma secondo me, in ogni caso, il testo rimane uno scivolone. Che, oltretutto, contrasta con il messaggio di libertà, di parità e di ribellione alle rigide regole sociali che il rock veicolava.

Lasciatemi ripetere ancora una volta che il mio obiettivo non era demolire dei mostri sacri (che adoro alla follia), ma presentarvi un pezzo che, a mio avviso, solleva ancora oggi tante polemiche.

E voi? Cosa ne pensate?
Fatemelo sapere e, se vi è piaciuta la recensione, condividetela dove volete 🙂

Claudia Paesano

*Nome abbreviato di “Hells Angels Motorcycle Club”, che sta ad indicare un’associazione motociclistica e organizzazione criminale nata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’40. Un gruppo di reduci della seconda Guerra Mondiale decise di non tornare alla normale vita quotidiana ma, piuttosto, di dedicarsi a risse e viaggi a bordo delle inseparabili Harley Davidson. Il loro comportamento sfociava spesso nell’illegalità.

Negli anni ’60, i feroci centauri scandalizzarono l’opinione pubblica per la loro dedizione al pericolo, alla violenza e all’alcool, nonché per le idee politiche pro–Guerra del Vietnam e le loro inclinazioni ai movimenti di estrema destra.

Giusto per fare un esempio:
Nel 1965, durante una manifestazione pacifista contro la guerra del Vietnam, gli Hells Angels caricarono il corteo in segno di solidarietà verso i soldati americani.

Dire Straits – Sultans of Swing

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TESTO:

You get a shiver in the dark,
It’s a raining in the park but meantime
South of the river you stop and you hold everything
A band is blowing Dixie*, double four time
You feel alright when you hear that music ring

You step inside but you don’t see too many faces
Coming in out of the rain to hear the jazz go down
Competition in all the places

Uh, but the horns they’re blowing that sound
Way on downsouth
Way on downsouth London town

Check out Guitar George, he knows all the chords
Mind he’s strictly rhythm, he doesn’t want to make it cry or sing
They said an old guitar is all he can afford
When he gets up under the lights to play his thing

And Harry doesn’t mind if he doesn’t make the scene
He’s got a daytime job, he’s doing alright
He can play honky tonk like anything
Saving it up for Friday night
With the Sultans
With the Sultans of Swing

Then a crowd of young boys they’re fooling around in the corner
Drunk and dressed in their best brown baggies and their platform soles
They don’t give a damn about any trumpet playing band
It ain’t what they call rock and roll
And the Sultans
Yeah, the Sultans play creole

And then the man he steps right up to the microphone
And says at last just as the time bell rings
Goodnight! Now it’s time to go home”
A
nd he makes it fast with one more thing
We are the Sultans,
We are the Sultans of Swing”


TRADUZIONE:

Avverti un brivido nell’oscurità
Sta piovendo nel parco, ma nel frattempo
Ti fermi a Sud del fiume e trattieni tutto.
Una band sta suonando un Dixie* al tempo di quattro quarti
E ti senti bene quando ascolti il suono di quella musica.

Entri, ma non vedi molti volti sottrarsi alla pioggia
Per ascoltare la musica jazz che stanno suonando.
Competizione ovunque,
Ma i corni stanno diffondendo quel suono
A Sud
A Sud di Londra.

Guarda “Guitar George”, lui conosce tutti gli accordi
Fai attenzione, lui è rigorosamente ritmo,
Non vuole farla piangere o cantare.
Dicono che una vecchia chitarra sia tutto ciò che ha da offrire
Quando si alza sotto le luci per suonare.

E ad Harry non importa se non fa scena
Ha un lavoro giornaliero e gli va bene così.
Può suonare l’honky tonk come qualsiasi altra cosa
riservandolo per il venerdì sera
Quando è con i Sultani,
I Sultani dello Swing.

E una folla di ragazzi sta cazzeggiando nell’angolo
Ubriachi e vestiti con i migliori pantaloni larghi marroni
e con le suole piatte
E non gliene frega di qualsiasi gruppo che suoni la tromba,
Non è ciò che chiamano rock and roll.
E i Sultani
I Sultani suonano creole.

E poi l’uomo va dritto al microfono
E dice, mentre suona la campanella
“Buonanotte! Adesso è ora di andare a casa”
E si affretta ad aggiungere un’ultima cosa:
“Noi siamo i Sultani,
Siamo i Sultani dello Swing”.


Scritta da:

Mark Knopfler

Eseguita da:

  • Mark Knopfler – Voce, chitarra solista
  • David Knopfler – Chitarra ritmica
  • John Illsley – Basso
  • David “Pick” Withers – Batteria

Dedicata a David.

Ciao a tutti!

La canzone di oggi è stata suggerita da Camilla, e si dice che narri un episodio realmente vissuto da Mark Knopfler.
Sultans of Swing, pubblicata per la prima volta nel 1978 come singolo d’esordio dei Dire Straits, compare anche come sesta traccia del primo, omonimo, album della band. Se dovessi assegnarle un colore, sarebbe il verde.

Il pezzo si apre con un preludio dalla delicata intensità, senza una sbavatura della chitarra, in pieno, unico e personalissimo, stile Straits: è sognante e movimentato da una batteria leggera ma sostenuta, abbastanza veloce, che si manterrà costante per tutta la durata del brano.
Pochi secondi dopo, l’entrata della voce sfumata di folk del cantante.
E’ notte e fa freddo: sta piovendo a Sud di Londra. L’atmosfera uggiosa sembra pervaderci, ma una speranza c’è: la musica. La musica come rifugio. Ci sentiamo meglio appena ne avvertiamo il suono.

“You feel alright when you hear that music ring”

Proviene da un locale.
Senza indugiare, entriamo. Non ci sono molte persone.

“Competition in all the places
Uh, but the horns they’re blowing that sound”

Un triste pensiero fulmineo ci attraversa la mente. Ma il suono che sentiamo è più importante. Ci cattura. Ci fa dimenticare l’amarezza. Ci trascina lontano: è irresistibile.
Trovo che questa frase sia una delle più belle dell’intera canzone, poiché esprime tutta la potenza salvifica della musica.

Il gruppo che si sta esibendo cattura la nostra attenzione. Ne riconosciamo due membri: “guitar George” e Harry.
Si tratta di George Young, fratello maggiore di Angus e Malcom Young (AC/DC), e di Harry Vanda. Nella realtà, sia George che Harry suonavano la chitarra in un complesso chiamato The Easybeats.
Ma torniamo alla nostra storia…
Il primo dei due, nonostante sia un musicista competente, è completamente disilluso, svogliato. Non vuole far piangere o cantare la sua chitarra, e si limita, così, a portare il ritmo con il suo strumento consumato dal tempo.
Sappiamo che anche il secondo è un buon musicista versatile, ma ostenta un atteggiamento distaccato e quasi noncurante. Non gli interessa fare scena per attirare l’attenzione. Rimane nell’ombra: sa suonare qualsiasi genere, ma per lui la musica è solo un hobby, o magari un piccolo sfogo da riservare al venerdì sera.
Un gruppo di ragazzi ubriachi completa il quadro come una macchia su uno straccio vecchio. A loro non interessa una band in cui sia presente una tromba, una band che suona jazz o creole (un particolare tipo di jazz diffuso a New Orleans), non è abbastanza rock and roll per loro.

Ecco una piccola chicca: avete mai sentito parlare di Alan Freed?
Nei primi anni ’50 coniò e diffuse, grazie alla sua radio, l’espressione “Rock and Roll”. Pochi sanno che quello stesso Alan Freed, anni prima, suonava il trombone in un gruppo chiamato proprio… Sultans of Swing.

Ho personalmente adorato la citazione a questo personaggio semisconosciuto, così come ho trovato interessante il riferimento, nel brano, a ben tre diversi tipi di jazz: lo swing, il dixieland* e il creole.

Ma passiamo, ora, a commentare la parte strumentale.
Gli intermezzi tra una strofa e l’altra sono semplicemente iconici, indimenticabili.
Il tocco morbido di Knopfler ci culla verso una dimensione sospesa, impalpabile, malinconica, con la sua inconfondibile precisione. Possiamo notarlo soprattutto dall’assolo, che definirei limpido. In questa canzone tutto è gentile, tenue, ma velato di tristezza: a partire dai cori, per finire alle percussioni.
Il basso è estremamente distinguibile e completa il sound del pezzo, donandogli profondità. Funge da appoggio alla chitarra in clean di Mark, costituendone quasi l’alter ego. La batteria di Pick Withers segue un pattern molto particolare, dal groove sottile, che fa del charleston e dei suoni metallici in generale il proprio tratto distintivo, contribuendo a tinteggiare di nostalgica delicatezza l’intera canzone. Non è una batteria che vuole emergere, primeggiare, sfondare le casse. E’ piuttosto una batteria elegante che anima il pezzo con il proprio rigore ritmico sempre costante, fondendosi perfettamente con le linee melodiche.

La parte della storia che preferisco è quella finale: avvertiamo, nel locale, una campanella che segna il tempo scaduto (onomatopea riprodotta dalla batteria di Withers). Un membro della band si avvicina velocemente al microfono per augurare la buonanotte al pubblico, e poi si affretta ad aggiungere il nome del complesso: Sultans of Swing. In questo punto del brano, le parole della splendida voce di Knopfler vengono sottolineate dalla base che incalza lievemente, trasmettendo all’ascoltatore una sensazione di attesa che trova la sua risoluzione nell’assolo finale.

L’assolo conclusivo è più movimentato rispetto al resto della canzone: unisce la tecnica pulita e la dolce razionalità di Mark in una cascata di note trasparenti.

Claudia Paesano

*Dixie sta per “Dixieland”, un singolare modo di suonare il jazz tipico dei bianchi di New Orleans.